WORKSHOP CREATIVO PER
LA COSTRUZIONE DI PROTOTIPI DI EXHIBIT
I PROTOTIPI DI EXHIBIT
Quel che dà maggior prestigio ad un Science Center
o a un Museo della Scienza non è tanto l'architettura
dei suoi spazi o la modernità delle sue apparecchiature,
ma la sua capacità di produrre gli exhibit che espone.
Per questa ragione sono molto apprezzati i cosiddetti «exhibit
developer», cioè coloro che sanno costruire
exhibit. Si tratta di persone non comuni, con eccellenti
abilità e competenze in ambiti professionali diversi:
insegnanti con la passione della meccanica, artigiani con
profondi interessi scientifici, scienziati dediti alla divulgazione
e finanche artisti con gusto della scienza, come accade
all'Exploratorium di San Francisco. La loro più preziosa
attitudine è il saper lavorare in gruppo. Un'attitudine
senza la quale non sarebbe possibile raggiungere l'equilibrio
tra la funzionalità educativa e la compiutezza estetica,
quel pregio che rende l'exhibit una vera e propria opera
d'arte della didattica. Essi raccolgono spunti qua e là,
osservando fenomeni fisici naturali o artificiali, ma anche
ascoltando le curiosità della gente. La fase più
creativa del loro lavoro è la costruzione di prototipi.
Molto spesso si pensa che le idee prendano corpo dal lavoro
progettuale di qualcuno e che poi, separatamente, i tecnici
e gli artigiani si occupino di realizzare praticamente quel
progetto. Si parte, invece, da un prototipo, anche solo
abbozzato, possibilmente in scala naturale. La costruzione
dell'exhibit procede, poi, nella generazione di versioni
migliorative di quel prototipo. Il pubblico ha una parte
attiva in questi miglioramenti: accetta molto volentieri
di suggerire cosa va aggiunto o modificato. Quando la funzionalità
pedagogica ed estetica dell'apparecchiatura è stata
finalmente verificata a tutti i livelli, si può dire
che è nato un nuovo exhibit.
Nei Paesi in cui i Science Center sono molto diffusi questo
schema di lavoro viene spesso proposto anche in corsi di
formazione per insegnanti. Si suppone che gli insegnanti
di materie scientifiche possano seguire la stessa dinamica
creativa, quando preparano i materiali didattici per i loro
alunni. In Italia, dove non vi è la stessa familiarità
con queste istituzioni espositive, lo schema accennato non
risulta ancora adottato ufficialmente.
Noi dell'Associazione ScienzaViva abbiamo cominciato a provarlo
nella forma di Workshop Creativo dal 2001, nell’ambito
delle attività previste dal progetto «Scienza
interattiva», cofinanziato dal MIUR, e finalizzato
a sperimentare nuovi stili educativi nella Scuola italiana.
Lo abbiamo proposto, in particolare, nel corso della Scuola
Estiva di Scienza Interattiva, organizzata a Calitri da
ScienzaViva nell’agosto 2001, e nell’ambito
della Scuola Estiva 2002 dell’AIF (Associazione per
l’Insegnamento della Fisica), dedicata al Laboratorio.
Nell’ideazione del workshop ci siamo ispirati principalmente
alle esperienze compiute in Australia da Geoff Snowdon presso
il Questacon - The National Science and Technology nell'ambito
del Science and Tecnology Awarness Program e apprese durante
i Congressi Mondiali dei Science Center di Helsinki e Calcutta.
Abbiamo fatto tesoro anche del modello di aggiornamento
SITE (School in the Exploratorium), seguendo da vicino le
iniziative del famoso museo americano.
Il Workshop Creativo consiste nella:
· ricerca delle leggi fisiche che entrano in gioco
in una situazione proposta da un problema reale o da una
scheda estratta da un libro;
· progettazione e costruzione di un modello funzionante
o di un prototipo di exhibit interattivo relativo a quelle
leggi;
· stesura di una tabella esplicativa destinata agli
alunni in cui si indica cosa fare, cosa osservare e in che
modo le leggi fisiche si legano alle applicazioni scientifiche
e alla vita di tutti i giorni.
GLI UTENSILI DI LAVORO
La parte più impegnativa dell'organizzazione è
la raccolta degli utensili e dei materiali per realizzare
gli scopi del Workshop. Non sono necessari strumenti particolari,
bastano quelli comuni, cioè quelli che - per intenderci
- si trovano di solito nelle botteghe di falegnameria e
di meccanica. Sembrerebbe banale affermare che quanto più
varia è la disponibilità di questi utensili
(e quanto più vari sono i materiali di cui si è
forniti) tanto è più facile costruire oggetti.
Ma l'affermazione non è poi così banale se
gli oggetti devono servire ad insegnare la fisica, perché
- in genere - gli utensili di cui si parla non sono presenti
nelle aule scolastiche. La didattica normale, infatti, preferisce
procedere principalmente con parole, testi e formule alla
lavagna. A volte - ma ci risulta con scarsa frequenza -
anche con apparecchiature acquistate dalle ditte produttrici
e quindi già collaudate. Queste, però, non
sono sempre alla portata delle competenze del docente. Quasi
mai la didattica viene realizzata con dispositivi da costruire
da sé, perché si esclude che il docente sia
stato formato a tali abilità.
L'utensile, si sa, aiuta la mano a compiere i gesti necessari
al processo creativo voluto. Nello svolgimento di questo
servizio, non è difficile riconoscere la connessione
tra pensiero e azione, una relazione che ha tracciato il
processo evolutivo della nostra specie. Usare gli utensili
vuol dire - in effetti - rinnovare le abilità dell'ingegno
che ha guidato l'uomo fino dalle sue origini. Se indaghiamo
più a fondo sulla natura di tale relazione, però,
scopriamo che anche la mano guida il cervello, infatti il
cervello pensa nei termini delle abilità effettivamente
possedute dalla mano. Perciò - indipendentemente
dagli scopi didattici dell'insegnamento della fisica a cui
qui ci riferiamo - lavorare con gli utensili vuol dire anche
rieducare, in senso più lato, mani impigrite dai
comfort della società moderna e cervelli resi poveri
dalla ripetitività di gesti scontati. Non a caso
F. Oppenheimer, il fondatore dell'Exploratorium, preferì
che la gente riprendesse familiarità con i propri
gesti, prima ancora di apprendere le leggi della fisica.
L'AULA COME BOTTEGA
L'aula di laboratorio - nel senso in cui ne stiamo parlando
- deve essere intesa prima di tutto come luogo degli utensili,
cioè come «bottega». In essa si opera,
ma forse è meglio dire si tenta, si prova e spesso
si sbaglia. Alla fine però si realizza, se - ai primi
insuccessi - si è tanto forti da non rinunciare.
Essa è il luogo in cui si prende confidenza con le
cose, precisamente con i materiali e con le attrezzature,
cioè si procede alle conoscenze elementari di tecnologia.
Bisognerebbe dire si riprende confidenza, se si considera
il distacco diseducativo tra la vita quotidiana e la produzione
dei beni che si è verificato negli ultimi decenni.
Infatti, i ragazzi, nel momento in cui diventano alunni,
vengono distolti per legge dalla frequenza delle attività
artigianali più elementari e ciò a causa dell'obbligo
scolastico, che si protrae ormai quasi sempre fino ai 18
anni. Con quella che può definirsi la coscrizione
obbligatoria alla scuola, dunque, si è interrotta
la catena di insegnamento e di apprendimento che ha consentito
agli uomini di trasmettersi il «saper fare»
manuale, per generazioni, senza soluzione di continuità.
Oggi, paradossalmente, anche l'azione di mettere un chiodo
diventa per un ragazzo un fatto eccezionale!
Nella società, intanto, si è fatta largo una
concezione sbagliata della scuola secondo la quale essa
è il luogo della sola teoria. La pedagogia delle
attività manuali è stata messa al margine.
Non ci dobbiamo illudere quando osserviamo i nostri bambini
delle Elementari a lavoro con la plastilina, con i colori
o con i fogli da disegno e la colla. Se li seguiamo fintanto
che giungono alle Superiori, abbiamo modo di verificare
che il grado di manualità creativa non cresce di
molto anzi tende a ridursi a quello dei gesti essenziali.
E' sorprendente notare come questa concezione sbagliata
è stata più forte di tutti le leggi scolastiche
succedutesi nel corso degli ultimi decenni. Queste hanno
sempre indicato la necessità di svolgere attività
manipolative nelle Elementari e nelle Medie, ma sono state
sempre tradite o svuotate di valore. Ancora più grave
appare oggi il prendere piede di tale concezione anche in
alcuni istituti scolastici superiori d'indirizzo professionale,
nei quali si osserva la trasformazione della produzione
di oggetti reali in semplice modellistica. Probabilmente,
si dà poca importanza alla familiarità con
gli utensili da lavoro perché si pensa che sia facilmente
acquisibile in ogni momento. Gli insegnanti non la includono
tra le condizioni essenziali per la conoscenza, contrariamente
all'importanza pedagogica a cui si accennava. In realtà,
sembra prevalere l'idea che la scuola debba servire a formare
impiegati e non persone con abilità complete.
C'è voluto un sforzo particolare del MIUR, con il
Progetto SeT ( Scienza e Tecnologia) per cercare di contrastare
il disarmo manuale e tecnico che è scaturito da questo
modo di intendere la scuola.
Eppure le tesi pedagogiche più apprezzate fin dall'inizio
del '900 sono proprio quelle che propongono di imparare
facendo, con il contributo esplicito o implicito della manualità.
Non c'è stata riforma scolastica al mondo che non
l'abbia ribadito in questi ultimi decenni. Dewey già
nel 1929 affermava che non è possibile giungere alla
formazione dei concetti prescindendo dall'azione concreta
sulle cose a cui i concetti si riferiscono. Seguendo Dewey,
sarebbe lecito chiedersi quale fisica si apprende senza
l'esperienza diretta della natura, ma questa domanda ci
porterebbe troppo lontano. La Montessori e le Scuole di
Reggio Emilia vengono portate ad esempio in tutto il mondo
per l'approccio diretto e multisensoriale alla realtà,
fin dall'infanzia. Paragoniamo tutto ciò alla pratica
normalmente usata nelle nostre scuole! Gli unici oggetti
concreti che adoperiamo sono la penna e la carta, per scrivere
formule o per schematizzare apparecchiature mai toccate.
Bisognerebbe saper spiegare il motivo di questa evidente
contraddizione!
Leggere un libro sembra più facile ed economico che
organizzare la ricerca. La scrittura e il libro, inoltre,
hanno ormai strutturato la conoscenza in modo così
determinante che pensare in modo alternativo, diventa impossibile.
E' noto, però, che il nostro rapporto con il mondo
non avviene solo mediante schemi intellettuali conformati
alla scrittura, ma anche attraverso la percezione delle
cose e la loro trasformazione con le mani e gli strumenti.
Questa via cognitiva all'interno dell'agire non può
essere esclusa dalla scuola!
IL MODELLO EDUCATIVO DI BOTTEGA
ARTIGIANA
Non è, però, semplice adottare il modello
di «bottega» artigiana o quello, più
completo e più famoso, di «bottega rinascimentale»,
perché bisogna aver vissuto in un contesto sociale
in cui le botteghe sono davvero presenti come realtà
produttive. Chi non ha mai visto una bottega artigiana,
come luogo di produzione e come cellula educativa, non può
immaginarla. Ecco perché in un piccolo paese come
il nostro, Calitri, dove i maestri artigiani svolgono ancora
un ruolo evidente, ha senso assumerla come riferimento.
Per chi vive nelle grandi città, invece, dove l'artigiano
e le sue attrezzature sono confinati in ghetti, la bottega
non può avere lo stesso significato. I legami di
amicizia, spesso di parentela, consentono a noi una confidenza
con i maestri artigiani anche fuori dei rapporti di lavoro.
Attraverso tale confidenza passano indirettamente notizie
relative al mestiere, alla sua pratica quotidiana e alle
attrezzature utilizzate. Vivere in un piccolo centro è,
in questo senso e ancora per il momento, più istruttivo
che vivere nelle città. Ciò equivale a dire
che al di sopra di un certo numero di abitanti, diventa
difficile trovare la strada per realizzare exhibit o per
fare prototipi, se la scuola non reintroduce questi tipi
di esperienze capillarmente in tutto il territorio nazionale.
Alla luce di queste riflessioni, viene da chiedersi quale
sarebbe stata l'evoluzione dei piccoli paesi se il massiccio
intervento statale nell'istruzione non avesse decretato
la discontinuità con il sapere della comunità,
cioè del costruire attrezzature, coltivare campi,
allevare animali ecc.. L'istruzione al leggere, allo scrivere
e al far di conto ha certamente fatto evolvere la popolazione
verso livelli di civiltà europea, sarebbe sciocco
dimenticarlo. Ma ha comportato quegli squilibri che osserviamo
da vicino, un'occupazione precaria e quindi l'emigrazione,
il degrado dei rapporti umani improntati ad antica dignità
e rispetto, l'incapacità di provvedere direttamente
alle proprie necessità, cioè essere sempre
bisognosi dell'intervento statale, per indicare solo quelli
più notevoli. Se le Scuole nei piccoli centri avessero
sfruttato la contiguità col «saper fare»
già diffuso, integrando il sapere dei padri con quello
dei figli, probabilmente avremmo avuto condizioni di civiltà
più avanzata di quella che è scaturita dall'aver
voluto imitare gli Istituti cittadini. Osiamo pensare che
ciascuno dei nostri paesi avrebbe potuto evolversi come
un «Exploratorium», perché quel che ha
costruito F. Oppenheimer a San Francisco non è altro
che un paese di tante piccole botteghe-scuole, gli exhibit
interattivi, in cui si impara insieme. Certamente avremmo
avuto bisogno di tanti Oppenheimer, con la stessa vocazione
e con la stessa cultura.
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